Una qualunque tra i sette miliardi di riflessioni

Ah. Boccata di respiro Finalmente scrivo. Ma per me. Ho sempre avuto la necessità intellettuale di un pubblico, di un uditorio, di una schermaglia anche minuscola e inesistente di lettori. Penso sia normale, chiunque scrive per qualcun altro, lo stesso scrittore tra qualche tempo, o forse è solo la mia esigenza di rappresentatività. La necessità estemporanea della performance che mi fa sentire viva costantemente immanente. E’ proprio da qui che parte la mia fame di teatro, e come mai mi sia trovata nello studio del jazz. Esistente o invisibile,  a questo punto tanto vale immaginare solo me come lettrice ( che poi è la stessa cosa, chissà poi perché questa necessità di lasciare traccia, e non affidarsi alla leggerezza delle verba volant). C’è più leggerezza quando si scrive per sé, si sente di meno la censura dell’osceno, i fuori scena si riappropriano della loro dignità di essere politicamente ingiusti, un errore, anche grammaticale, è un errore solo perché contestualizzato. Dicevo, o  meglio, scrivevo, chi saranno mai i posteri a dover leggere le parole statiche di una tra i sette miliardi di persone, o tanto meno io, tra tutte le vicende che la vita mi snocciola ogni minuto secondo. “La scrittura è materia morta”, mi infuriai a morte, appunto, di fronte questa affermazione da parte di un prof di filosofia al mio primo anno di università. Adesso ne colgo la provocatoria espressività del professore Lupo, e non posso che abbracciarla con ogni parte del mio corpo, ogni polpastrello vivo che rapido sta zompettando da una parte all’altra della tastiera del mio pc in una giornata appena estiva che è iniziata di recente. Mentre la vita continua, sto stilando scorie semantiche o semplicemente di significanti, segni grafici pure abbastanza brutticelli- l’alfabeto arabo è molto più curioso. Siccome ho una pessima memoria, ho il pretesto di scrivere per poter ricordare chi sono. È così importante? Ieri ho conversato un esame di storia della musica occidentale della classe non ancora borghese, ecclesiastica e di corte-ah, sì, era questo il principale motivo per cui mi stavo appuntando il tempo. Studiare la storia mi ha sempre dato l’impressione di inspessire il presente, il suono che tiro fuori dal mio violino è carico di tutto il percorso che, istituzionalmente, da programma ministeriale, inizia con l’epitaffio di Sicilo del II a.C., e ancora prima. Non è solo il suono del 23 giugno 2016. Siamo storie. Vabbè, ma perché parlo al plurale, questa maestosità del pluralia maiestatis, se mi sto rivolgendo solo a me stessa? Come vogliono Fernando Pessoa, Luigi Pirandello,  sì, siamo storie, io, Arianna, Aria, Aria’, Ari, Luci, Lucifilo, Arianneide, Ariannuccia, Ariannina, Ariannaluci, monellinadimamma, ecc. Ma quali sette miliardi? Sette miliardi al quadrato, e più. Ma perché non pubblicarlo in fondo, su questo strumento di mediocrità, mediocrazia leggevo oggi, dei social, che ci rendono così antisocial, me senza peccato. Mentre correvo, ci pensavo, l’altro pomeriggio. Cazzo, c’è dal 2009 FB. Non ci avrei scommesso più di 5€ che sarebbe durato negli anni. Abbiamo ( di nuovo con il pluralia?) questa necessità di far finta di essere noi a scegliere, a dire la nostra –ma siamo sicuri che sia realmente la nostra?, a prenderci 15secoli di secondi di celebrità. Forse questa epoca, del tutto ora tutto già consumato, ci lascia il presente, la precarietà del tempo che tanto di soffoca, a vivere umanamente animali. Saranno quindici minuti che scrivo, dai, la giornata è già cominciata da un po’, e non posso continuare a morire. Mi sto divertendo talmente tanto che mi sembra un peccato smettere di zampettare sulla tastiera, ma come tutte le più belle cose. Punto.

brutta

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